Riporto qui di seguito un articolo di Sergio Rizzo pubblicato dal Corriere della Sera del 15/01/2013.
Siamo sicuri che l’esistenza di Giuseppe
Rossodivita non cambierà in peggio. Il suo mestiere è quello di
avvocato, ed era impegnato in politica con i Radicali ben
prima di finire nel Consiglio regionale del Lazio. Come sanno bene i
molti che lo ricordano da tempo impegnato nella battaglia per restituire
decenza alle carceri.
Ma la notizia che né lui, né l’altro
consigliere del suo partito Rocco Berardo sono nelle liste che
sosterranno il candidato di centrosinistra Nicola Zingaretti suona
effettivamente come una beffa .
Senza l’iniziativa dei due
radicali, che la scorsa estate hanno rivelato con la pubblicazione sul
loro sito le dimensioni abnormi dei finanziamenti di gruppi consiliari
della Regione Lazio, lo scandalo che ha poi travolto Franco Fiorito e
Vincenzo Maruccio difficilmente sarebbe esploso con tanto fragore. Di
più. Sarebbe continuato anche lo stesso andazzo in tutte le Regioni
italiane, senza controlli della Corte dei conti e senza l’obbligo di
dare trasparenza ai bilanci dei gruppi politici.
Beffa doppia, considerando che
una bella fetta di quel consiglio regionale ha trovato posto sulle
scialuppe di salvataggio predisposte dai partiti.
Se la
governatrice Renata Polverini resta fiduciosa circa la prospettiva di
una candidatura in Parlamento nel centrodestra e il consigliere
Francesco Storace ha pescato il jolly della candidatura a governatore,
ben sei dei quattordici componenti del gruppo consiliare del partito
democratico che ha partecipato con gli altri alla spartizione dei fondi
sono già stati imbarcati con destinazione Montecitorio o palazzo Madama.
A cominciare da Bruno Astorre, l’ex
presidente del Consiglio regionale che faceva parte dell’ufficio di
presidenza nel quale si deliberavano gli stanziamenti sui quali è in
corso una inchiesta della Corte dei conti. Mentre va ricordato che
l’intero ufficio è sotto indagine da parte della magistratura per una
proroga, ritenuta illegittima, dell’incarico dell’ex segretario
generale. Astorre sarà candidato al Senato. Insieme ad altri quattro
consiglieri democratici: Carlo Lucherini, Claudio Moscardelli, Daniela
Valentini e Francesco Scalia. Non Marco Di Stefano, per il quale si è
aperta invece la strada di Montecitorio. Un altro dei consiglieri del Pd
più in vista, Claudio Mancini, ex assessore, è rimasto invece
appiedato. Si consolerà con l’elezione della moglie Fabrizia Giuliani in
Lombardia.
E il capogruppo Esterino Montino, il
quale giustificò ad Alessandro Capponi una fattura di 4.500 euro spesi
in una famosa enoteca, dicendo che si trattava dei doni natalizi per i
bimbi delle famiglie disagiate? Escluso dalle liste per il consiglio
regionale, dove fece la sua prima apparizione nel 1975, e dal Parlamento
(anche lì era già stato), proverà il brivido di fare il sindaco.Il Pd
lo candida a Fiumicino. Mentre sua moglie Monica Cirinnà andrà con ogni
probabilità a Montecitorio.
Non ignoriamo i meccanismi della nostra politica.
E chiaro che se Zingaretti avesse fatto posto ai radicali che hanno
dato fuoco alle polveri, avrebbe dovuto fare qual- che concessione anche
agli esclusi del suo partito. Né, pur volendo, avrebbe potuto impedire
che si aprissero per loro, come si sono aperti, tutti quei paracadute. Ma
resta il dubbio, anche a causa di questa vicenda, sulla portata del
rinnovamento in casa democratica: dove anche le primarie (il sistema che
ha consentito per esempio ad Astorre di rientrare in gioco al Senato)
hanno fatto vittime illustri.
Un nome per tutti, quello di Salvatore
Vassallo, che si era battuto perché andasse in porto la legge che dopo
65 anni avrebbe definito finalmente la forma giuridica dei partiti.
Battaglia ovviamente persa. E vittime si sono contate anche fra coloro
che grazie alle tanto criticate deroghe per quanti hanno fatto più di
tre legislature complete per 15 anni di mandato, avrebbero dovuto essere
«recuperati». Regola che ha determinato situazioni curiose. Per esempio
quella di Mauro Agostini, cui Walter Veltroni aveva affidato i cordoni
della borsa del Pd ed era stato il primo a far cadere il tabù dei
controlli «esterni» sui bilanci dei partiti.
Quando era tesoriere affidò
la verifica dei conti del Pd a una società di certificazione: adesso
quello è per tutti un sacrosanto obbligo di legge. Avendo già fatto
quattro legislature, per 17 anni di mandato, doveva essere teoricamente
escluso. Ma aveva ottenuto una deroga, che però non gli è servita perché
è rimasto fuori dalle liste. Non ha fatto le primarie e nessuno l’ha
chiamato. Contrariamente al suo predecessore Ugo Sposetti, che ha alle
spalle lo stesso numero di legislature ma con 14 anni di mandato anziché
17.